Una giornata in azienda

Una giornata di Agosto torrida fino al punto di inasprire la morbidezza per antonomasia delle colline della Sabina Romana.

Ci accolgono colori insolitamente giallo ocra.

Antonella Ruggeri dell’Azienda Agricola Palombara riceve noi di Cultivìa nella casa rurale di famiglia, sede sin dai primi anni settanta della strategia aziendale che ha amorevolmente incluso una coltura combinata, fatta di frutti della terra su diciotto ettari disposti a: vigneti a degradée sui pendii,filari che ancor prima di narrare le loro gradazioni Cabernet-Sauvignon, mosti, grappe in barrique, profuma di ricerche fatte sulle origini, un’attenzione per l’autoctono e per la nuova sperimentazione, ceppi oltralpe quì riadattate; uliveti che se spremuti riversano l’immediatezza di un autentico oro DOP di Sabina; i frutteti nettarini regalano confetture e polpe di frutta invasate a pezzi; orti-pomidoro quasi ornamentali ai piedi dei monti per completare la tavola con passate e ciliegini da piatto.

Ogni produttore, ogni azienda, ha una sua storia.

Tanto più la sua storia aziendale sarà stata longeva, tanto più rivelerà i combattimenti e gli sforzi resi necessari negli anni al fine di fortificarla – di questo ci si rende conto subito – nelle avversità naturali come nel complesso girone delle iniziative nate per incentivare le attività olivicole. Una trama comune da nord a sud. La tracciabilità di filiera, si sa, è stata una questione dolente, un continuo interrogativo nella quale orientarsi. Il regime di conversione al Bio è stata una scelta di consapevole ecologia per l’Azienda Agricola Palombara ed una chiara risposta nella volontà di snellire le problematiche di tracciabilità.

Le cultivar sono quelle tipiche della sabina e (del DOP Sabina): leccino, carboncella, frantoio, rosciola. Pendolino come impollinatore e salviana, qualche ascolana.

Le linee sono due: il DOP Sabino e tracciato ‘100% qualità italiana’ Unaprol.

Entrambi gli oli sono fruttato medio anche se il 100% è più forte per la maggior presenza di carboncella. La conservazione è in silos ad azoto.

Sperimentazione in certi casi significa elaborare un’ economia del rispetto, per quel che si produce. Il “Rosato d’Autunno” è un vino particolare dal retrogusto tannico, un tepore regalato al palato per i mesi che rappresenta. Non sarebbe forse mai stato assaporato se il Monte Gennaro quell’anno non si fosse imbiancato così tanto, se le cantine non si fossero riempite d’ improvviso di trecento quintali di avanzo di uve. Appese, ovunque. Un’asperità che ha rilegato nuovamente all’antico mestiere della prova in alambicco, fino ad ottenere il mosto perfetto.

La testa inizia a girare, si sale di gradi. L’Omnevinum, rosso di grande struttura proviene da una qualità di vigneto autoctono copiosamente recuperato annualmente. E’ il ciliegiolo, omonimia della tipica forma a ciliegia che caratterizza il grappolo. Un’intuizione paterna nata per hobby negli anni settanta. Il primo vino dell’Azienda Agricola Palombara.

A questo punto è quasi d’obbligo un passo indietro prima di proseguire. Tutti i vigneti sono sotto quota. Settemila e trecento sono a filare, tutte varietà che hanno la loro ragione di essere, per dare colore e profumo a quelle esistenti.

Gli ettari sono un patchwork variegato in: milleduecento metri per varietà autoctona, duemila di rosso impiantato a DOC (uve Moscato/Greco/Pinot) e seimila di bianco (con percentuali di Malvasia/Trebbiano), sempre impiantato a DOC.

La questione autoctona è talmente reale che un particolare vigneto, prossimo ad essere estirpato ma da cui verranno riprese nuove talee, è tanto sui generis da arrivare ad ottenere facilmente i 18,5 gradi. No dico 18,5! Un risultato che ha del temerario per un vitigno che non risieda neppure nel profondo Sud. Conosciuto personalmente palmo per palmo da un Antonella a cui scintillano gli occhi quando ne parla, con venerazione, ne ama il carattere che ha reso difficile il compito dei tanti enologi interpellati per determinarne la provenienza. Le risposte non si sono ancora fatte trovare.

Stemperarsi è d’obbligo. Interpelliamo un altro gran vino, secco, da pasto, ma è un bianco: il Donna Costanza, chiamato così per onorare la tradizione della discendenza riprendendo per l’appunto il nome della prima pronipote, poi ritratta da un famoso pittore locale e fissata nella memoria dell’etichetta di questo blend. Un blend caratterizzato dalla lavorazione a basse temperature, quindi in termorefrigerazione, ma andiamo per passi, dopotutto non siamo tutti esperti enologi. Il racconto per una non addetta ai lavori diventa ancor più appassionante: le uve senza buccia (mosto diretto) viene messo a fermentare per cinque/sei giorni in botte. Poi si svina. Nelle botti vengono introdotte delle piastre di raffreddamento per portare alla temperatura di 16-18°, evitando così l’evaporazione dei profumi. La fermentazione ha un tempo di 20/25 giorni, tempo durante il quale ci pensa il a far precipitare i residui e i sigilli, che risiedono sopra alle botti, permettono di vedere quando il mosto è limpido.

Per quanti di voi si considerassero ‘dal palato fine’ consigliamo la scoperta del Nobilis, un rosso Cabernet-Sauvignon dal piacevole retrogusto di peperone. Una peculiarità questa, che gli ha consentito un varco tra una cerchia di favoriti, nobili, suggerimento poi ripreso nel naming. Un 13,5 gradito in particolare dalle signore. Grazie al sistema di potatura corta i gradi possono sfiorare i 15.

Tutti gli IGP con le loro percentuali sono sotto il controllo della Camera di Commercio.

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